lunedì 26 novembre 2012

L'ITALIA ED IL FEMMINICIDIO


 
 
Il Paese in cui si uccidono più donne, in Europa, non è la maschilista Italia, bensì la femminista Finlandia. La patria europea del femminicidio non è l’Italia, ma la Finlandia
 
 
 
 
La Vita in Diretta - programma pomeridiano condotto da Mara Venier - continua a parlare di femminicidio. Domenica 25 Novembre 2012 e' stata dichiarata la giornata mondiale contro la violenza femminile.

Fatti di sangue che coinvolgono donne, quasi sempre vittime di omicidio o tentato tale, riportati con regolarità dai media, con un’attenzione e uno spazio crescenti, ma soprattutto presentati come parte di una narrazione organica e coerente e, quindi, da ricondurre a uno sfondo comune, a un’eventuale causa comune.

Nel periodo di fine aprile-inizio maggio 2012, ecco un altro picco nel discorso, e un piccolo salto di qualità, con gli appelli alla politica e/o la richiesta urgente che la società “faccia qualcosa”. Mara Venier e' sicuramente una delle paladine di questi continui appelli.

Forse è il caso di provare a fare il punto della situazione, e magari farsi qualche domanda, anche considerando che il discorso pubblico in merito potrebbe tenersi ben vivo nei mesi a venire, o addirittura salire ulteriormente in diffusione e intensità.
 


ricerche effettuate tramite Google per il termine “femminicidio” negli ultimi dodici mesi (cliccare per ingrandire)
 
Il discorso in rete mi pare caratterizzato da una certa uniformità nei media consolidati e un maggior conflitto d’opinioni nel pubblico (commentatori di quotidiani, tenutarî e commentatori di blog).
In generale, però, mi sembra largamente condivisa la volontà e la necessità di ricondurre il fenomeno a cause proprie della società tutta. Inevitabile, visto che i media avevano implicitamente presentati i singoli fatti come un insieme organico, come capitoli di una storia unica, impostando così una cornice difficile da contrastare. Le opinioni divergono quindi su quali siano le cause di questo fenomeno.
In realtà già il primo punto mi trova scettico, cioè che si tratti di un fenomeno emblematico di più ampie tendenze sociali.

Le cause che ho visto più spesso evocate sono le seguenti: la cultura maschilista arretrata che concepisce la donna come possesso; l’educazione italiana, spesso esemplificata dalla mamma chioccia (o castrante), educazione incapace di abituare i figli al rifiuto e all’autonomia emotiva; il proliferare, specie nella pubblicità, di immagini femminili semipornografiche, sessualizzate e oggettificanti.

La terza causa, in realtà m’è sembrata evocata meno spesso delle altre due. E la seconda meno della prima.

E forse è inutile dire che la prima e la seconda potrebbero essere etichettate come spiegazioni rispettivamente “femminista” (è colpa del maschilismo italiano) e “maschilista” (è colpa dell’educazione mammista italiana). L’etichettatura è sicuramente grossolana e semplicistica, ma comunque specchio del dibattito in corso, che di per sé non sembra tendere a eccessivi livelli di raffinatezza, bensì a smuovere emotivamente e polarizzare per identità contrastanti: è in corso una guerra che produce morti, bisogna decidere se stare da una parte o dall’altra, non si accettano compromessi, tentennamenti, obiezioni o domande.

Vale la pena sottolineare che le due ipotesi, quella “femminista” e quella “maschilista” identificano solo grossomodo una demografia di sostenitori divisa per genere sessuale: anche se in minoranza, si sentono voci di donne avanzare l’ipotesi “maschilista”, o voci di uomini quella “femminista.

Ma soprattutto bisogna sottolineare con forza che nel discorso ufficiale, a parte qualche sparuta eccezione, predomina in maniera schiacciante la prima ipotesi, quella che chiama in causa l’italico maschilismo e che presuppone al fondo una netta contrapposizione di genere, tra la donna vittima e il maschio aggressore, quest’ultimo implicitamente spalleggiato dall’intera popolazione maschile o dalla sua gran parte.

La petizione che nasce e circola in rete è in tal senso significativa fin dal suo titolo, ovvero Mai più complici; petizione scritta da donne, che evidentemente si presentano come portavoci di tutte le donne, per chiedere “agli uomini [tutti] di camminare e mobilitarsi con noi, per cercare insieme forme e parole nuove capaci di porre fine a quest’orrore”.
 
Chi non si mobilita è un complice. A questo punto però non è ancora molto chiaro in cosa dovrebbe consistere, materialmente, questa mobilitazione.

Ma nell’impostazione generale del discorso e nel proliferante dibattito in rete è un’altra la cosa che ho visto spesso fare, e che ho trovato assai discutibile.

Si tratta della confusione flagrante tra due piani, quello dell’analisi dei fatti e quello del giudizio di valore.

Nell’interrogarsi e discutere sulle cause di questi omicidî, ho notato che determinate ipotesi vengono automaticamente squalificate come “giustificazioni per chi uccide le donne”.

In pratica sarebbe corretto affermare che le uccisioni di donne sono l’effetto diretto di una mentalità maschile diffusa, sono prodotti da un problema sistemico di tutta la società; e sarebbe invece scorretto affermare che si tratta di casi singoli, probabilmente ognuno con cause proprie, ma comunque cause che restano individuali (raptus improvvisi e imprevedibili; cecità indotta da gelosia o angoscia d’abbandono; incapacità di frenare la propria violenza).

Il problema è che qui correttezza e scorrettezza non sono misurate sui fatti.

Se un uomo uccide una donna, le cause precise e concrete dell’evento stanno nella testa del colpevole e nel contesto immediato del quotidiano che circonda lui e la vittima, che si spera gli inquirenti sapranno districare; se poi esista un contesto più ampio, questo eventualmente ce lo dirà chi studia la società, si spera lavorando seriamente e con rigore.

 Questo significa analisi dei fatti. E finché i fatti non vengono indagati direttamente, non c’è molto da dire, a parte le ipotesi da bancone del bar (o salotto tv, o da forum/blog internettiano).

 Il giudizio di valore è un’altra cosa. E non si può escludere a priori un’ipotesi a favore di un’altra solo perché quella sembra essere un alibi morale mentre questa no. Specie poi se si desidera che la responsabilità individuale, soprattutto in tribunale, resti ferma anche a prescindere dal contesto sociale.

Non si dovrebbe neanche rammentare che il richiamo alle “colpe della società” sono servite a lungo (almeno secondo alcuni) proprio per giustificare, e condonare, i colpevoli d’ogni tipo di delitto: “Vostro onore, è vero che ho ucciso la mia donna, ma che ci volete fare, è la società maschilista che mi ha portato ad agire così, è il sistema del patriarcato che ha armato le mie mani, e le ha mosse il testosterone cui mi condannano i miei cromosomi. Potete forse considerarmi colpevole?”.

Che una causa ipotetica suoni come giustificazione è una questione di prospettiva.
 
In realtà si capisce che la questione è soprattutto di tipo politico, se non ideologico, per affermare prima di una qualunque analisi dei fatti la prospettiva secondo cui, sì, queste 100-120 donne uccise ogni anno sono vittime non solo dei loro assassini, ma d’un sistema culturale più ampio.
 
Eppure non servono nemmeno grandi ricerche per farsi almeno un’idea vaga su qual è l’ipotesi più fondata.

Basta un po’ di banale, gelida statistica: 100-120 vittime l’anno possono essere indubbiamente una tragedia enorme per chi vive direttamente l’evento ma, su una popolazione femminile di 30.000.000 (trenta milioni) sono ben lungi dal costituire un fenomeno. O, soprattutto, da permettere di ipotizzare cause sistemiche.

Eppure ho letto, nelle settimane passate, commenti parlare di “massacro”, “ecatombe”, “strage”, “eccidio” o addirittura “sterminio”.

Ma allora cosa dovremmo dire, per fare il primo esempio che mi viene in mente, dei suicidî femminili che, annualmente, di vittime ne mietono dieci volte di più, ovvero circa un migliaio l’anno ?
 
Il ricorso alla statistica produce spesso un’immediata obiezione.

Si dice: d’accordo, contando a freddo le cifre sull’intera popolazione, forse le vittime non sono così tante; sono però la punta visibile di un iceberg sommerso fatto di violenze maschili e di disprezzo della donna che attraversano l’intero corpo sociale; si parte dalla pubblicità con le cosce al vento e si va su su sino allo stalking, allo stupro, e all’omicidio, e quest’ultimo non è disgiunto dal resto, è solo l’ultimo inevitabile anello di una tragica catena di misoginia.

Può essere. L’obiezione ha una sua logica. Ma anch’essa si rivela debole alla prova dei fatti, come ora cercherò di mostrare.

Al di là delle cause evocate, mi pare si dia per scontato che questi omicidî di donne siano un problema soprattutto italiano, in quanto appunto prodotto finale della condizione della donna in Italia che, rispetto agli altri paesi d’Europa, non è certo delle migliori. Anche in questo caso le cifre non mentono: per indipendenza economica e accesso al lavoro delle donne, l’Italia non brilla.

Ma per i cosiddetti femminicidî, come stanno le cose?

La petizione che ho già citato afferma recisamente che “un paese che consente la morte delle donne è un paese che si allontana dall’Europa e dalla civiltà”. In Europa non si uccidono le donne, par di capire.

Eppure tra giornalisti ed esperti, almeno tra quelli che ho letto in questi giorni sull’argomento, nessuno ha mai anche solo provato a operare un confronto effettivo con l’estero.

Ma si sa che i proclami fanno effetto, mentre le indagini richiedono tempo e pazienza.
 
E allora la ricerca me la sono fatta io.

I dati li ho ricavati da un documento del Ministero dell’Interno, che a sua volta li prende dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Mi auguro siano sufficientemente attendibili.

I dati riguardano i morti per omicidio nei paesi dell’Unione Europea tra il 1982 e il 2002. È un periodo sufficientemente lungo per consentire delle considerazioni generali.

Con questi numeri ho prodotto due grafici.

Il primo riguarda il numero di donne uccise o, più precisamente, il tasso di donne uccise ogni centomila abitanti.

Tra tutti i paesi disponibili, ho limitato il confronto a Italia, Francia, Germania, Svezia e Finlandia. Francia e Germania in quanto tra i maggiori paesi europei. Svezia e Finlandia perché noti per le loro politiche particolarmente attente riguardo alle istanze femminili e femministe.
 
Direi che i dati parlano da soli.

L’Italia si attesta nella media degli altri paesi, anzi, persino un po’ più in basso rispetto a Francia, Germania e Svezia. La civile Germania, a inizio anni Ottanta, aveva un tasso di donne uccise doppio rispetto a quello dell’arretrata Italia, per dire.

Soprattutto va notato che il tasso italiano è più o meno simile a quello attuale, e si sta parlando di dati che partono da trent’anni addietro. Il cosiddetto “recente aumento di femminicidî in Italia” di cui si parla in queste settimane è verosimilmente nient’altro che una fluttuazione periodica, inevitabile quando ci si focalizza solo su una manciata d’anni. Nel complesso la situazione italiana è stabile, e non da poco tempo.

Notevole invece la performance finlandese. E si tratta di un record anche a confronto con gli altri paesi dell’Unione Europea. Un tasso, a seconda dei momenti, siano a quattro o cinque volte superiore a quello italiano.

Il paese in cui si uccidono più donne, in Europa, non è la maschilista Italia, bensì la femminista Finlandia.

La patria europea del femminicidio non è l’Italia, ma la Finlandia.


Questo dovrebbe farci concludere, come immagino alcuni vorranno fare, che “il femminismo militante in politica aumenta le morti delle donne”? I maschî finlandesi uccidono le donne come reazione alla loro emancipazione?

Non direi, visto che la Svezia, che come femminismo militante ha pochi paragoni in Europa, mostra un tasso di donne uccise ben inferiore alla confinante Finlandia, e in linea col resto dell’Unione.

Se ci sono delle cause, vanno trovate altrove.

Il punto è che la Finlandia sconta un tasso d’omicidî molto molto alto sia per gli uomini che per le donne. La Finlandia è il paese dell’Unione in cui si uccide di più. Giocoforza sono tante anche le vittime femminili.

E, almeno da quanto ho letto in giro, pare che tra le cause ci sia il consumo eccessivo di alcool combinato con l’ampia disponibilità di armi da fuoco.
 
Il secondo grafico confronta il tasso di omicidî diviso per i generi delle vittime: quanti uomini muoiono in più rispetto alle donne nei varî paesi?
 
Anche qui i dati sono piuttosto chiari.

Nella macabra uguaglianza degli assassinî, vince la Germania, paese in cui la quantità di donne e uomini uccisi tende a equipararsi.

È in Italia, invece, che la sperequazione è maggiore.

L’Italia, nell’Unione Europea, è il paese in cui vengono uccisi molti più uomini che donne o, se si vuole, molte meno donne che uomini.

La linea relativa all’Italia, si noterà, subisce una lenta ma costante ascesa a partire dagli anni Novanta. Ma come si capisce dal primo grafico, non dipende da un aumento di donne uccise, bensì da un calo di vittime maschili.

E in ogni caso si tratta di una variazione che la porta in linea col resto dell’Europa, quell’Europa che, almeno così ci dicono, dovrebbe tollerare meno dell’Italia le donne uccise.
 
A questo punto si può tornare alle domande principali, e magari provare delle risposte.

Se gli omicidî di donne sono frutto di una cultura maschilista, l’unica è ammettere che in Italia c’è molto meno maschilismo che nel resto d’Europa, visto che nel resto d’Europa si uccidono più donne, e visto anche che in Italia si uccidono molte meno donne che uomini.

Oppure, in alternativa, se si ritiene che invece l’Italia sia un paese effettivamente maschilista (e personalmente ritengo lo sia, almeno per buona parte), bisogna ammettere che questo non è legato al numero di donne uccise, le quali, altrimenti, dovrebbero essere molto più numerose che nel resto d’Europa.

O il maschilismo italiano non ha nulla a che vedere col numero di donne uccise, oppure l’Italia è meno maschilista del resto d’Europa. Non ci sono molte alternative.
 
La domanda diventa quindi questa: perché mai in Italia un fenomeno statisticamente minoritario, costante nel complesso, e meno grave che nel resto d’Europa, ha assunto un’importanza così di primo piano, producendo una tale mobilitazione mediatica, col tentativo connesso di produrre un’altrettanta mobilitazione politica?

La domanda potrebbe restare in eterno sospesa.

Risolverla significherebbe riuscire a spiegare come mai succeda che la società, di punto in bianco, subisca violente eruzioni allarmatistiche che si dileguano con altrettale rapidità, imponendo all’attenzione pubblica paure, reali o fittizie che siano, che poi vengono sùbito dimenticate. La lista dei casi potrebbe esserelunga: si va dal bullismo su YouTube agli stupratori rumeni (o qualunque altra categoria d’immigrati) ai pitbull assassini, e così via.

Quel che resta a tutt’oggi inspiegato è cosa spinga in determinati periodi determinati allarmi a emergere e altri a restare dominio di pochi specialisti e attivisti.
 
Dunque, perché proprio ora l’allarme femminicidio, e non cinque o dieci o venti anni fa?

Provo tuttavia ad azzardare alcune ipotesi.

Non c’è dubbio che l’allarme femminicidio germina sull’onda lunga del dibattito sulla condizione femminile in Italia, alla ribalta nel discorso pubblico ormai da qualche anno.

Il nuovo dibattito pubblico sulla donna è partito e si è mosso lungo diversi filoni principali, cavalcati da diverse parti politiche. Tra gli altri: la questione del lavoro, dell’indipendenza economica, delle risorse dedicate in tal senso dallo Stato; la questione dell’immaginario pubblico: le pubblicità, gli spettacoli televisivi, le narrazioni giornalistiche, spesso imputati di “svilire l’immagine della donna”, ridurla a “oggetto sessuale”, a rinchiuderla in “stereotipi”; la questione, non certo di oggi, della violenza sulle donne: la violenza domestica, la violenza sessuale, e le donne uccise.

Questi filoni non sono necessariamente contrapposti e tuttavia, a rischio di tagliare l’analisi coll’accetta, è possibile ricondurli alla destra o alla sinistra, specie nelle contromisure auspicate.

La sinistra ha battuto soprattutto il tasto del lavoro e la richiesta d’interventi pubblici in tal senso (sostegno alla maternità, ecc); ha poi giocato, almeno sino allo scorso governo, e in maniera alquanto spregiudicata, sulla questione dell’immagine femminile, e su una rumorosa condanna alla pubblica esibizione di carni, rumorosa tanto da bordeggiare un moralismo che anche nella stessa sinistra non è stato sempre ben digerito.

La destra tuttavia non è certo stata a guardare, anzi: mi sorprende che spesso si dimentichi come ad esempio la nuova legge sullo stalking e tutta una serie di inasprimenti penali in materia di violenza sessuale siano stati promossi con fervore proprio dal governo Berlusconi e dalla sua ministra Carfagna, forse anche per l’esigenza forte di ripulirsi un’immagine non proprio lindissima, almeno per l’opinione pubblica corrente, in termini di “rispetto della donna”.

Fatto sta che, a qualche mese dal tramonto del governo Berlusconi e del suo licenzioso caravanserraglio, e dal probabile tramonto definitivo di tutto ciò che il berlusconismo ha rappresentato, anche in termini d’immaginario collettivo (quello che parte sin da Drive In e tramite le veline arriva al famigerato bunga bunga), ora la battaglia principe per i diritti femminili è quella sul femminicidio, cioè su fatti atroci esposti all’orrore della pubblica opinione per chiedere nuove fattispecie di reato, inasprimenti delle pene, “carte etiche” per i media, cioè misure di legge, ordine e controllo di tipo sostanzialmente repressivo, per difendere una donna vista come vittima debole bisognosa di tutele speciali.

E dunque, l’allarme femminicidio come vittoria di un discorso di destra?

 Forse, ma si deve comunque tener conto che la lotta alla violenza sulla donne è stata e resta una bandiera tradizionale anche della sinistra, con una differenza non tanto sul merito ma sui metodi di contrasto. Laddove la destra chiede sbarre e catenacci, la sinistra solitamente chiede (anche) educazione e una nuova cultura.

Più probabilmente l’allarme femminicidio è un sintomo dei pochi risultati concreti che la grande mobilitazione femminile di questi ultimi anni ha ottenuto ricorrendo a sistemi ordinarî, di qui la necessità di buttare sul piatto carichi più pesanti, di giocare le carte dei cadaveri, del sangue, della morte.

O ancora, forse, si tratta del ricorso a un argomento capace di raccogliere con facilità (chi mai, specie negli apparati mediatici ufficiali, oserebbe sminuire la gravità di una strage di donne?) un consenso altrimenti molto più arduo da ottenere in una situazione piuttosto frammentata.

In ogni caso, l’allarme femminicidio lo vedo soprattutto come segno di disorientamento o comunque debolezza da parte dell’attuale movimento femminil-femminista, dove le proposte concrete o mancano o non riescono ad avere sufficiente efficacia.
 
Ma non è nemmeno scontato che questo allarme non riesca a contribuire al raggiungimento di qualche scopo, anche se di poco e anche se quelli cui è stato associato restano parecchio fumosi. Come già detto, non si capisce in cosa dovrebbe consistere concretamente la “mobilitazione degli uomini”; “cambiare la cultura del paese” è una frase facile a dirsi ma che in pratica significa tutto e niente.

Forse ci sarà qualche inasprimento delle pene. Ci sarebbero sicuramente già stati se vivessimo non sotto un governo tecnico ma uno politico, uno di quelli solerti nel dimostrare al popolo votante di “fare qualcosa” e combattere il male.

In ogni caso, col tempo, lentamente, forse molto lentamente, non dubito che sulla condizione femminile l’Italia arriverà ad allinearsi agli altri paesi.

Aumenterà l’occupazione femminile. Sempreché tutto il sistema economico non imploda, ovviamente, e allora non resteranno che macerie da raccogliere, per maschî e femmine al contempo.
Un po’ alla volta spariranno quelle pubblicità e immagini pubbliche reputate “lesive della dignità della donna”, “sessualizzanti”, “oggettificanti” e così via. Ma questo è un trend che ormai da tempo coinvolge tutti i paesi industrializzati, e a cui l’Italia si sta solo aggiungendo, da buona ultima.

Gli omicidi di donne tuttavia non caleranno.

Perché, come si è visto, è già fenomeno minimo e ormai stabile da decennî, e slegato dal contesto sociale.

Semplicemente, una volta che saranno risolte le questioni femminili sentite come più pressanti nella quotidianità diffusa (il lavoro, le immagini pubbliche), non se ne parlerà più. Perché allora, dal punto di vista politico, non sarà più un’arma utile cui far ricorso.
 

Nessun commento:

Posta un commento